Articolo pubblicato su Il Becco il 29 aprile 2021, l’originale cliccando qui.
Il nuovo libro di Massimo Carlotto, edito da Rizzoli, nella collana Nero, ha come titolo E verrà un altro inverno. Essendo nelle librerie da pochi giorni è bene evitare ogni riferimento allo sviluppo narrativo.
Ci sono però alcuni elementi che possono essere esplicitati per dare ragione della necessità di sfogliare e consumare la sua ultima fatica, specialmente guardando alla solitudine sui nostri territori e alle comunità in cui viviamo.
Le nostre società sono guidate dalla legge del profitto, che necessariamente si basa su una divisione tra classi, con una parte di umanità sfruttata e dinamiche strumentali da cui pare impossibile potersi liberare.
In modo quasi ossessivo tornano i maggiorenti, quella parte al governo dell’economia che può permettersi di fare ciò quello che vuole, contando su un’impunità possibile grazie a un sistema giudiziario che continuamente risente dei rapporti di forza concreti e reali. Nella logica dell’accumulo di ricchezza come unico scopo è chiaro che legale e illegale non hanno più alcun reale significato, il confine svanisce e tutto si traduce in una distinzione tra chi perde e chi vince
Non esiste quindi una giustizia astratta e neanche un senso del giusto. Ogni vita è vittima di un sistema dove è la stessa umanità a essere ostile alle dinamiche del capitalismo. Se una persona prova dolore è bene che si curi con i farmaci: il lutto per una persona morta sul luogo di lavoro fa parte dell’inevitabilità del presente e può essere solo sedato, affogato. In attesa che ritorni un altro inverno.
Ogni tipo di relazione risente del contesto e si consuma al suo interno. Anche le relazioni solidali in una valle di provincia, dove la dimensione collettiva dovrebbe essere più tutelata di quanto avviene nelle grandi città, sono al servizio di uno sviluppo insostenibile per le persone, oltre che per l’ambiente.
Non c’è traccia della crisi pandemica, per scelta esplicita dell’autore, ma il libro parla del tempo presente e di noi.
Il settentrione italiano non è un luogo astratto. Carlotto utilizza le dinamiche di quella parte di mondo per evidenziare le conseguenze di leggi (economiche) sempre più globali, ma dal diverso impatto.
Anche i legami familiari si sono piegati ed adattati, in modalità autodifensiva, specialmente dopo le ferite inferte dalle crisi economiche. Chi si sente vittima punta alla sopravvivenza e ambisce a poter salire sulle zattere delle persone apparentemente salve, che a loro volta hanno come unico obiettivo quella di poter tutelare la propria diversità.
L’orizzonte di senso della vita si è frantumato e sgretolato, schiacciato sulla misura del successo attraverso l’ostentazione del consumo. Ci si rinchiude e ci si immerge in quella guerra all’accaparramento di tutto ciò che appare a portata di mano. Non si appartiene a una classe sociale, si è semmai esclusi ingiustamente dal gruppo dei maggiorenti e delle persone ricche. Fuori da questa dimensione si appare deboli e avanzano le paure.
Quel senso di vuoto che si fa sempre più pesante, dentro di noi e attorno a noi, deve essere riconosciuto. Anche politicamente. Altrimenti nessuna via di uscita è data.
Per questo l’ultimo romanzo di Carlotto può essere anche una lettura militante, oltre che un romanzo dove la storia coinvolge e funziona: dà un’indicazione precisa di un bisogno di umanità negato dal nostro sistema economico, rafforzato dal distanziamento fisico imposto dalla pandemia e travolto da una contemporaneità digitale dove tutto è ancora più disciplinato dall’apparenza e dall’apparire.
Partire dal nostro dolore, dal nostro vuoto, per poterlo riconoscere anche in chi ci è vicino. Anche questo è parte della politica di cui abbiamo bisogno.