Articolo pubblicato su Il Becco il 26 settembre 2020, qui.
Il 1979 è considerato in modo diffuso un anno di svolta, almeno per chi insiste sulla categoria di neoliberismo come chiave interpretativa del tempo presente. Di genealogia dell’ordoliberalismo ha scritto in modo approfondito, per la nostra testata, Alessandro Zabban, guardando a Foucault (la prima parte del suo articolo qui), per cui qui sarà sufficiente richiamare come Alberto Mario Banti, docente storia contemporanea all’Università di Pisa, abbia scelto di partire da Thatcher e Reagan per evidenziare come la pandemia Covid-19 si sia diffusa in un mondo segnato da diminuzione della pressione fiscale sui grandi patrimoni e dell’aumento della disuguaglianza all’interno delle società occidentali.Nel suo ultimo libro, La democrazia dei followers. Neoliberismo e cultura di massa, Banti propone una lettura complessiva dei fenomeni che stiamo vivendo, suggerendo la necessità di prendere consapevolezza del torpore in cui saremmo immerse e immersi. L’autore propone una pubblicazione di poche decine di pagine che segue il più lungo e storico Wonderland. La cultura di massa da Walt Disney ai Pink Floyd, abbandonando il campo prettamente storico, a cui resta comunque ancorato, e riprendendo quanto scritto da Mark Fisher nel suo Realismo capitalista, facendo riferimento al divertimento conformista che dominerebbe l’oggi.
Attraverso un processo di accentramento delle case di produzione cinematografiche, i film avrebbero visto una forte riduzione dei generi, almeno guardando alla fascia alte degli incassi e delle visioni, rimuovendo dall’immaginario tutto ciò che può rappresentare un elemento di disturbo. Saremmo sotto una cappa totalitaria che non offre spazio al perturbante, negando la sofferenza, il dolore e la morte, che forse neanche SARS-CoV-2 sarà in grado di rimettere al centro della consapevolezza delle persone.
Si salva qualche serie televisiva, sostiene Banti, anche se denuncia una tendenza a normalizzare anche questi prodotti, citando a titolo di esempio il finale di serie del Trono di Spade, che ritiene essere un’operazione di pacificazione serena di quanto di buono era uscito dalla penna di George R. R. Martin.
Complessivamente siamo tutti soggetti a un processo di infantilizzazione del pubblico, costruita attraverso la standardizzazione delle storie. Guerre Stellari appartiene a pieno titolo alla stagione che ha segnato il ritiro della controcultura a nicchie minoritarie, mentre il grande pubblico si è sempre più rifugiato in spazi che rifiutano la complessità.
Si coltiva il mito dell’immortalità e la comunicazione culturale si presta a una individualizzazione delle persone a cui le reti sociali offrono uno strumento decisivo.
La democrazia dei followers vive grazie all’illusione di essere costantemente in relazione e in contatto con tutto il mondo, mentre in realtà si è assolutamente in solitaria, o nel migliore dei casi in relazione con la propria bolla.
Alcuni passaggi interessanti sono dedicati anche all’aziendalizzazione della sanità e dell’università, con il suggestivo e inquietante aneddoto dell’UNIPOS, il sistema per la registrazione dei verbali di esami universitari in uso presso l’ateneo pisano che richiama i dispositivi diffusi per pagamenti elettronici.
Banti offre quindi una riflessione articolata e rivolta direttamente alla politica, in particolare a quelle amministrazioni locali che appaiono impegnate a occuparsi principalmente di questioni futili.
Tre punti forse sono sacrificati dalla necessità di sintesi e appaiono un po’ forzati.
Il primo è la riduzione del divertimento nel suo complesso a un processo di conformismo, senza voler qui elogiare le saghe cinematografiche del Signore degli Anelli o di Harry Potter, che però sembrano davvero semplificate nel giudizio di Banti, come talvolta appare tra chi lavora nell’ambito della cultura cosiddetta alta. Il mercato prende atto dei rapporti di forza nella società, mentre nel testo il panorama culturale appare più come causa dei processi di individualizzazione che una delle conseguenze del tempo presente.
Il secondo è la semplificazione del processo di regionalismo e di quello di un ritorno dei sentimenti nazionalisti, alternatisi degli ultimi decenni. Affermare che l’IRA appartenga alle istanze separatiste che si sarebbero rinnovate negli anni Sessanta, comprendendo tanto i Paesi Baschi, quanto la Corsica, non risulta funzionale al ragionamento complessivo della pubblicazione e poteva essere forse semplicemente evitato.
Il terzo è il rapporto tra immigrazione e sistemi di comunicazione. È vero che nel 2020 si resta in contatto più facilmente con la propria comunità di provenienza, così come è innegabile il ruolo della televisione del favorire alcuni processi migratori. Affermare che oggi l’integrazione sia più difficile che in passato, alla luce delle nuove tecnologie, rischia di negare una complessità propria anche del Novecento.
La democrazia dei followers si offre come interessante approfondimento della cultura di massa, a partire da un intellettuale italiano contemporaneo che rivolge uno sguardo critico al neoliberismo in cui siamo immersi. Un accenno fugace nel testo all’importanza del mercato spinge chi legge a chiedersi se anche Banti ritenga che il capitalismo sia riformabile o se per lui sia ancora aperta la necessità di un cambiamento più radicale, che superi lo stato di cose presente.
Quella che fu la socialdemocrazia sta riscoprendo l’importanza di definirsi socialisti. Quasi cento anno fa è nato invece un partito, in Italia, che scelse di chiamarsi comunista.
Sembrano questioni di un passato lontano, ma riguardano anche la nostra cultura di massa.