Per chi vive sentendo sulle sue spalle il peso della storia, oggi è un giorno difficile. Ma non un giorno senza senso. Per chi avesse il tempo e la pazienza, l’estratto è lungo…
«M. L’abbandono dell’impegno politico per te equivale a una perdita di senso?
R. È una perdita di senso. Per chi lo ha abbandonato. Io no, non posso costruire granché ma posso tentar di portare «di pianto in ragione», per dirla con Fortini, quel che ci viene tolto e quel che ci viene offerto. È senza senso vivere come si vive: più deprivati di potere che mai sul nostro destino, smarriti di fronte a noi stessi. Si patisce e si subisce. Tre quarti della teoria del postmodemo, la fine delle grandi narrazioni, l’effimero, è un tentativo di svicolare alla perdita di senso. Maldestro. Certo non tutti accettano il tragico dibattersi degli uomini per qualche cosa che va al di sopra di loro. Io ho avuto una formazione diversa, ero abituata a pensare che la vita è tragica nel senso cinquecentesco della parola – Racine, Pascal – dove il conflitto non si aggiusta, non si risolve, non c’è pacificazione. Come nella tragedia greca, o per errore o per pazzia o per intervento divino, la vicenda umana è incomponibile. Ma questo ne fa anche una straordinaria avventura. Fa pensare che nel VI secolo avanti Cristo, decine di migliaia di persone di ogni ceto si spostassero per settimane, per vedere le ultime tragedie.
M. La tragedia veniva vissuta e condivisa con molti altri spettatori. La ritualità aiuta molto. Si vive assieme il quasi della tragedia e il dopo.
R. Nella tragedia non c’è un dopo. Finisce con la morte d’un protagonista, eliminando il problema, non sciogliendolo.
M. Nel finire c’è un compimento, e c’è per forza un dopo poiché lo scorrere del tempo non appartiene a ciò su cui l’umano ha controllo, né signoria…
R. Forse hai ragione. L’ho presa larga per dire che una perdita politica può essere vissuta in due modi. Uno come seguito di errori, debolezze, tradimenti dovuti a un fatale degenerare dell’umano, l’altro come un percorso tragico, pieno di errori e cadute, ma non senza senso.
M. Questo è quel che ti dico: la perdita non puoi fare a meno di registrarla, anche se un modo – terribile in verità – per non accettarla è il rifiuto costante di tutto ciò che la mette in forma. Ciò che chiamiamo conseguenza è anche questo.
R. Io tendo non solo a registrare ma ad accettare che l’esistenza umana sia tragica. Per tragico non intendo drammatico, lacrimoso, insopportabile, intendo di rara soluzione e attraverso molta perdita. In questo caso non esorcizzo il Pci che mi ha cacciato e se ne è andato lontano da quel che era, non mi dico neanche «Se badava a me sarebbe invece prosperato»; è una storia mal finita, per molta debolezza ed errore. Il problema che era stato posto resta. Se uno la vede così, non c’è da stare allegri, ma non ha risentimenti. Io non ne ho. C’è stato un passaggio della mia vita e della storia, che è un passaggio tragico. Lo rifarei. Anche se è stato un coacervo di spinte incomponibili.
M. Che cosa è incomponibile? Vita e morte?
R. Vita e morte di certo, almeno per il singolo morente o morituro. Pare che nel ciclo biologico siano invece assolutamente necessarie l’una all’altra. Ma noi siamo solo in parte, la parte che non pensa, dentro al ciclo biologico, la coscienza ne è estromessa. Ma anche la vita è fatta di incomponibili. O vivi evitando di pensare alla morte o vivi una finitezza che ti nega. Se questo non è tragico…»
La terra ti sia lieve.
Da Manuela Fraire e Rossana Rossanda, La perdita (Bollati Boringhieri, Torino, 2008)