Articolo pubblicato su Il Becco il 21 dicembre 2020, qui
Nella serie televisiva Boris appare il personaggio dello “scalatore delle Ande”, un presunto campione di ciclismo che brevemente interviene per testimoniare l’importanza di non perdere la “corsa della vita” contro la droga.
A lui è corsa la memoria guardando l’ultima copertina de l’Espresso, con cui viene proposto un fotogramma del Settimo sigillo di Ingmar Bergman modificato. A giocare a scacchi con la morte è Diego, il primo neonato registrato in Italia del 2020, che porta un nome capace di richiamare il mito di Maradona, tra le “vittime” illustri di questo anno.
In questi mesi segnati da SARS-CoV-2 ha trovato fugaci spazi, nel dibattito pubblico, la rimozione della morte e della malattia dall’immaginario del XXI secolo, che la pandemia avrebbe svelato. Tra i buoni intenti per il 2021 ci sono richiami alla necessità di un cambiamento che suonano posticci. Ogni tentativo di riferirsi ai limiti della vita sembra doversi misurare con la dimensione della trascendenza, di un significato delle proprie esistenze che in forma individuale attiene alla singola soggettività. Come se non potessero esistere orizzonti di senso propri di questo mondo e quasi il passato fosse esente dalle difficoltà del tempo presente.
La popolazione anziana non è vulnerabile per via della Covid-19: le fragilità dei corpi e le abitudini sociali concorrono a comporre un quadro di complessità estraneo alla percezione dello stato di cose presenti. Che oggi ci sia una rinnovata consapevolezza appare quanto meno opinabile. Lo dimostra la necessità di dichiarare la vita vincitrice sulla morte, con una forzatura dell’immagine di un film più commentato che visto.
La politica guarda all’arrivo dei vaccini come a una luce in fondo al tunnel. La “scienza” viene indicata con la s maiuscola e il metodo scientifico è un noioso orpello, di ostacolo all’indispensabile ripristino dello stile di vita con cui siamo entrati nel nuovo millennio. L’attesa è quasi messianica. Spasmodicamente si scandisce la richiesta di normalità. Magari con qualche risorsa in più stanziata per i sistemi sanitari e sociosanitari dei diversi paesi.
In questi mesi non c’è stata la capacità di imporre una riflessione su come le persone potrebbero avvicinarsi alla fine delle loro vite. Il punto di partenza dovrebbe essere l’autodeterminazione della singola esistenza, non sempre possibile da conoscere, nel caso di malattie che rendono la non autosufficienza un problema legato alla salute mentale. Le residenze sanitarie assistite sono diventate, in alcuni casi, delle discariche sociali, al pari degli istituti penitenziari, forse ancora più perturbanti delle carceri. Può essere pesante da dire e rischia di mancare di rispetto ad alcune esperienze concrete, ma sarebbe sbagliato edulcorare un giudizio rafforzatosi alla luce di questo 2020. Nella maggioranza dei casi l’idea di allontanare in strutture dedicate un proprio familiare si accompagna con un latente senso di colpa. Non si ha il tempo, non si ha la stabilità economica o non ci sono le energie per poter risolvere altrimenti il rapporto con una popolazione sempre più anziana. Questo perché la politica e le istituzioni hanno rinunciato ai loro ruoli di interpretazione della realtà e relegato numerose questioni al mondo dei buoni sentimenti, che alimentano il terzo settore e l’universo dell’assistenza. Immaginare un rapporto con i servizi alla cittadinanza diffuso sul territorio richiede risorse e nuovi modelli pubblici, oltre a investimenti su nuove professionalità incentrate sulle relazioni umane, su una cura che poco ha a che fare con la somministrazione di farmaci o gli interventi chirurgici. Il tutto non è esente da contorti e a tratti perversi circuiti economici di sovvenzione che confondono il volontariato con il mondo del lavoro, senza considerare la consegna agli appalti di aspetti primari della vita delle persone, ridotte a relazioni di sfruttamento misurate con lo scorrere dei secondi e contratti al ribasso.
Senza voler ripetere quanto scritto qualche mese fa sulle cronache dal limite di Edoardo Boncinelli (qui) credo sia utile confermare, a qualche mese di distanza, la necessità di costruire un mondo in cui si possa condividere un’idea avanzata di dignità: appare indispensabile per immaginare un futuro migliore. Contrariamente a quanto si sarebbe indotti a credere non è possibile “farsi” da soli o da sole. Da questo dovrebbe seguire un rinnovato significato da attribuire alla politica, intesa come pratica quotidiana, che va dalla volontà di comprendere il presente al tentativo di provare a incidere su di esso in forme organizzate, conservando sempre una socratica consapevolezza di non poter davvero sapere niente con totale certezza, praticando il sano esercizio del dubbio e provando a capire chi si ha di fronte, anche quando questo appare sostanzialmente impossibile.
Se Massimo Cacciari, sempre sull’ultimo numero de L’Espresso, decide di riferirsi alla necessità di avere un fine, la filosofia dovrebbe aver aiutato l’umanità ad accettare che il senso delle esistenze può essere trovato anche senza orizzonti escatologici. Ogni persona prima o poi finisce per interrogarsi sui destini ultimi dell’universo, ma esistono innumerevoli risposte che possono essere date.
Sentirsi persone degne è una condizione di benessere che può riconoscere lo spazio per l’infelicità e le fragilità. Può essere ritenuto un obiettivo pubblico, specialmente partendo dal volere riconoscere la dignità umana in quei luoghi sistematicamente rimossi dall’immaginario presente (alcuni esempi: chi vive condizioni di povertà, chi è privato della sua libertà, chi ha perso la salute, chi ha violato le leggi). Praticare attenzione in questa direzione non vuol dire pensare agli ultimi, come lecitamente invita a fare anche l’attuale pontefice, a cui tante persone guardano con diversi gradi di simpatia – non sempre ragionevoli. Può infatti tradursi in una messa alla prova della propria capacità di incidere sul reale e di quanto sia efficace la lettura che viene data dello stato di cose presenti.
Per tornare alla Covid-19: non ci sono guerre in corso, con eroi ed eroine pronte a caricare le malattie e sconfiggerle per sempre, quasi fossimo nei pressi del Fosso di Helm. C’è un sistema sanitario in evidenti difficoltà, con lavoratrici e lavoratori allo stremo, che cercano di svolgere la loro funzione in una società dove la condizione di bisogno è stigmatizzata e relegata a dimensione esclusivamente privata.
Lo attesta la crociata lanciata per salvare il Natale, rivelatasi poi sconfitta. C’era un presunto spirito da tutelare, mentre l’attribuzione cromatica (da gialla a rossa, passando per l’arancione) diventava l’argomento su cui battere i piedi sulla stampa, da parte di importanti esponenti istituzionali con responsabilità apicali di governo. Con un assioma mai messo in discussione: la vita economica vale quanto la vita delle persone, perché senza soldi non si sopravvive. È la premessa irrazionale che mai può essere messa in discussione (almeno non senza ricevere l’accusa di essere appartenenti a un qualche genere di élite). Non c’è spazio per una critica dell’economia politica e neanche appare una vera priorità, fuori da circuiti ristretti di militanza che si richiamano a Marx in modo spesso feticista.
Ognuna e ognuno deve fare i conti con la propria esistenza e le proprie paure, in un rapporto soggettivo con la morte che non può essere ridotto alla vita pubblica. Quello che però nella società può essere fatto è offrire spazio per l’autodeterminazione di vite vissute come degne.
La retorica di fine 2020 della politica e del sistema di informazione appaiono funzionali a una totale conservazione dell’esistente. Le ingiustizie già conosciute risultano più accettabili di quei cambiamenti che costringerebbero a mettere in discussione le proprie certezze.
La malattia e la povertà continueranno a essere delle colpe, a cui far fronte con la generosità e i buoni sentimenti di chi si sente comunque “salvo” rispetto a quanto di peggio potrebbe accadere, spinto a guardare con sospetto a chi riesce a stare meglio, accusato alle spalle di usufruire di chissà quale privilegio. Perché il punto è non poter ammettere di aver bisogno delle altre e degli altri. Partire da ciò che la società rimuove è forse l’unico modo per innescare un percorso di cambiamento, che rischia di rimanere a lungo prerogativa di corsi di studio accademici e di quale pur interessante (ma insufficiente) pubblicazione.
Non c’è nessuna corsa per la vita per sconfiggere la morte, ci sono lotte per la dignità da portare avanti. Alla sinistra servirebbe mettere al centro quello che la società presente rimuove. Lo si può fare anche senza apparire dispensatori di sciagure, nonostante tocchi l’ingrato compito di tenere l’attenzione su tematiche che “disturbano” il quieto vivere. Se però sentirsi sole e soli è una delle principali patologie del nostro tempo, diventa inevitabile contrastare questa situazione per ottenere un cambiamento in meglio. Non si tratta di sconfiggere la morte, si tratta di tutelare la vita delle persone, che passano attraverso le malattie e inevitabilmente affrontano la fine della singola esistenza.
Costruire orizzonti di dignità è una pratica che può avvenire solo nella società, nel quotidiano, costringendo la politica a pensarsi anche fuori dalla dimensione istituzionale.