“Che dalle esperienze negative si esca con un salto in avanti è segno di capacità di lettura critica e di volontà di aggredire la realtà piuttosto che subirla, un processo positivo quindi che si potrebbe mettere in campo anche dopo questa drammatica esperienza della pandemia. Le proposte che leggiamo sulla stampa di rendere stabili le forme organizzative nate con urgenza per affrontare il virus, il GIROT e le Usca, originate dalla necessità di collegare operativamente ospedale e territorio, dopo che la frattura fra i due segmenti della sanità è stata resa così pesante, sembra assai interessante. Certo – proseguono Dmitrij Palagi e Antonella Bundu di Sinistra Progetto Comune con Anna Nocentini di Rifondazione Comunista Firenze – mancano ancora da definire molti punti operativi e che ne definiscano a pieno le caratteristiche, oltre alla garanzia che non accada come per le Case della Salute, che hanno visto solo il cambiamento della targa esterna.
Risulta però quanto meno strano che in nessun intervento si sia colto un richiamo al Piano nazionale cronicità del 2016 che, per quanto non privo di criticità e limiti, pure rimane una base di partenza di qualità per ricostruire i punti e le azioni di collegamento indispensabili per garantire la tanto decantata continuità assistenziale, la presa in carico complessiva del paziente con malattie croniche e la centralità del paziente non come oggetto delle cure ma come protagonista della propria salute e della propria malattia (patto di cura).
La riflessione che si impone oggi, a quattro anni dal Piano, è che la dimensione dell’invecchiamento, fase in cui la presenza di una o più malattie croniche è statisticamente molto più frequente, deve essere oggetto di una ampia considerazione che attraversi tutta la società, visto che è l’orizzonte di vita di tutte le persone e che il periodo della cosiddetta terza e quarta età si sta ampliando, all’interno della quale la caratteristica sanitaria del Piano stesso trova collocazione, non esaurendola.
È questo di più che l’esperienza collettiva imposta dal Covid-19, comunque ciascuno e ciascuna l’abbia vissuta, ci impone oggi di prendere in considerazione: sebbene indispensabili, è sufficiente una riorganizzazione delle RSA per scongiurare quello che è successo? È sufficiente la pubblicizzazione delle RSA per garantire che diventino luoghi di cura e non di contenzione, ancorché con tappeti e poltrone? Quindi bene la ricostruzione della funzionalità del territorio, l’ospedalizzazione domiciliare, tutte le modalità messe a disposizione dalla tecnologia, tutte cose previste nel Piano che dovevano essere già in attuazione.
Ma laddove le condizioni di salute non lo consentano, e purtroppo ci sono anche queste, le strutture per accogliere questi pazienti devono essere sanitarie e pubbliche, devono garantire cure adeguate e continue e questo deve essere il loro scopo primario.
Le Residenze sanitarie assistenziali – concludono Dmitrij Palagi e Antonella Bundu di Sinistra Progetto Comune e Anna Nocentini di Rifondazione Comunista Firenze – hanno fatto il loro tempo, hanno retto opportunamente la chiusura dei vecchi ospizi, dando dignità alla vecchiaia malata. Ma la natura sociosanitaria non corrisponde più alla attuale funzione, sempre più di fine vita con malattie alle quali non è in grado di garantire cure.
Per questo il dibattito odierno sulla pubblicizzazione – per quanto importante – non è esaustivo, perché se da una parte è capace di eliminare le storture che la mercantilizzazione della salute e dell’assistenza hanno prodotto, dall’altra così com’è non ha dimostrato sia sul piano generale dell’organizzazione della sanità territoriale né nello specifico delle RSA, di sapersi adeguare alle nuove necessità ed avere quindi le capacità di affrontare l’imprevisto”.