Articolo pubblicato su il Becco, qui.
Barack e Michelle Obama sostengono di raccontare storie da quando hanno abbandonato la professione legale.
Formulato il concetto in questo modo, si potrebbe cedere alla malizia e immaginare che abbiano scelto di manipolare la realtà per ottenere consenso, ma ovviamente non è questo il significato delle loro affermazioni, rilasciate durante una conversazione con Julia Reichert e Steven Bognar, che hanno diretto il documentario Made in USA – Una fabbrica in Ohio (titolo originale American Factory).
Sia il lungometraggio che il dialogo a quattro sono disponibili su Netflix e rappresentano il primo tassello di quanto la Higher Ground (casa di produzione fondata dall’ex Presidente degli Stati Uniti) realizzerà per la piattaforma multimediale.
Viene rivendicata quindi una politica intesa come narrazione, come significato da dare alla realtà, il senso verso cui indirizzare la quotidianità. Ci sono anni di discussioni (su contenuti, identità e comunicazione) che vengono superati di fatto, nei dieci minuti in cui the Obamas spiegano le ragioni per cui hanno deciso questo nuovo impegno.
Per chi ha modo, quindi, il consiglio è di non limitarsi al documentario, che pure ha un valore che prescinde da questo aspetto, ma aggiungere la visione di questo contenuto aggiuntivo.
La storia è contemporanea e si inserisce direttamente nello scontro tra USA e Cina.
Una fabbrica della General Motors, in Ohio, chiude, lasciando nella disperazione le classi lavoratrici della zona. Arriva però un’azienda cinese, che accende un faro di speranza. Rileva l’area e decide di aprire un impianto produttivo di vetro per autovetture. Decine di lavoratori e lavoratrici arrivano dall’Oriente, assieme ovviamente ai nuovi dirigenti, per affiancare la popolazione locale.
A muovere l’investimento non è solo l’economia. L’imprenditore cinese ha il compito di dimostrare la possibile collaborazione tra due culture, oltre i pregiudizi. Con la bandiera rossa sulle spalle del “padrone”, alla guida di operaie ed operai che non hanno nessuna intenzione di rinunciare al “sogno americano”.
Il documentario, vincitore del premio Oscar 2020, si presenta come neutrale, ma non lo è. Registra in modo interessante e interessato molte voci, delineando anche la profonda diversità del sindacato a stelle e strisce, rispetto a quello cinese (entrambi i modelli a loro volta diversi da quelli ulteriormente eterogenei nel continente europeo).
I lavoratori e le lavoratrici cinesi non capiscono come si possa lavorare tanto piano e tanto poco, come avviene nel cuore del capitalismo occidentale. I lavoratori e le lavoratrici statunitensi non capiscono come si possa lavorare a condizioni tanto pesanti, con scarsi livelli retributivi.
L’operazione ripresa dal documentario è forte ed efficace. Il Paese che era considerato la “fabbrica del mondo” ora si propone di aprire fabbriche nelle più importanti economie del pianeta (quante volte, ancora oggi, in Italia, Made in China è considerata un’indicazione di scarsa qualità?).
I pregiudizi tra realtà diverse sono l’aspetto più evidente.
Quello che fa da cornice è la paura per il futuro, il ruolo che avrà il lavoro umano in un tessuto produttivo che marcia senza rallentamenti verso l’automazione, aumentando i ritmi e i risultati, anche se non si capisce bene per chi e per cosa, se non per le leggi del profitto.
Quello che trasmesse questa storia, per come viene narrata dalla casa di produzione di Obama, è una sorta di nostalgia per i “bei tempi” del capitalismo del secolo scorso, o almeno di quello che ha garantito agli Stati Uniti di potersi affermare come forza egemone del blocco occidentale, che sognava di essersi definitivamente affermata con il crollo del Muro di Berlino.
Qualcosa però non ha funzionato, è evidente. Lo sfruttamento prosegue. Le disuguaglianze crescono. Gli Stati Uniti si trovano a fronteggiare un quadro internazionale fortemente in evoluzione.
Se solo potesse avere un volto umano, il capitalismo, che altri problemi ci sarebbero? Ma perché quindi non si possono conciliare gli interessi e i bisogni delle classi lavoratrici con la regola del profitto di chi detiene i mezzi di produzioni?
Sono le domande a cui il documentario ovviamente non risponde.
Un prodotto interessante e sicuramente da vedere, giustamente segnalato segnalato da Simone Pieranni nel suo recente Red Mirror.
Sentire un dirigente cinese incitare i lavoratori e le lavoratrici con un Make America Great Again non può lasciare indifferenti…